Nasce a Cassano allo Ionio (Cosenza) il 18 marzo 1932. Maturità classica a Castrovillari, laurea in giurisprudenza alla Sapienza nel 1954. A Roma dal 1951, in quello stesso anno comincia a collaborare a Il Tempo. Redattore nel 1955, lavora soprattutto al Servizio Esteri; sono del 1959 suoi articoli dalla Iugoslavia sul comunismo titino.
Inviato speciale di Telesera nel 1960, svolge, tra l’altro, inchieste a Mazara del Vallo dopo un tragico attacco tunisino a nostri pescherecci nel Canale di Sicilia; sul banditismo nel Nuorese; sulla vecchia “mala” romana. Segue, nell’aprile 1961, la rivolta dei generali di Algeri; pochi mesi dopo è nella Berlino del “muro” dove intervista Willy Brandt. Al Corriere Lombardo nei primi del ’62, “conosce” Milano da cronista ed è impegnato in vari reportages, tra cui un’inchiesta tra i contadini del Sud che lavorano nelle campagne settentrionali. Non trascura, in tutti questi anni, di seguire gli avvenimenti letterari e artistici, sì che gli è affidata la pagina culturale del quotidiano milanese, col supplemento settimanale dedicato ai libri.
Tornato a Roma nel 1963, è redattore del Servizio Cultura de Il Tempo, critico – con particolare attenzione per la poesia del Novecento, non soltanto italiana -, elzevirista, inviato speciale in Italia e all’estero per inchieste e cronache (come il Nobel a Montale e a Dulbecco, Stoccolma 1975, e alla Montalcini, 1986). A Mosca, nel novembre 1987, si occupa della perestrojka. Scrive su Realtà del Mezzogiorno, la rivista del meridionalista Guido Macera.
Dal 1988 al 1993 collabora a Italia domanda, trasmissione televisiva di Gianni Letta su Canale 5.
Nel 1976 gli è assegnato il Premio Scanno, sezione giornalismo, e nel 1981 riceve, in Campidoglio, il premio “Città Eterna” per il giornalismo culturale. Ha pubblicato in gioventù due libretti di versi: Ragazza del tram (ESA, Roma 1953) con una presentazione di Giuseppe Selvaggi e Il gallo del Sud (Porfiri, Roma 1957) con la prefazione di Adriano Grande.
Vive a Roma.

  • POEMETTO PER IL RE DI NAPOLI

    In questo poemetto si avverte immediatamente il fiato caldo di chi ha attraversato molte esperienze e ne ha tratto insegnamenti e verità che poi hanno saputo fiorire e trovare una loro dimensione, una peculiarità personale e inconfondibile. Di Giacomo conosce il peso delle parole e te adopera senza sprecarle, con un timbro che evita di sfociare nella musica esteriore, con una cadenza che ci accompagna all’interno di un mondo che è riuscito a contemperare maniere diverse d’espressione, amalgamando la lirica all’epica, l’elegia al narrativo poetico, il parlato basso con l’aulico. Ci sono versi che sembrano creare una danza di immagini e altri che si diluiscono in accensioni che ci portano nelle atmosfere della storia senza appesantirsi.
    Si avverte che Di Giacomo è transitato attraverso infinite controversie abbeverandosi alle fonti alte della poesia, per questo ci fa scaldare al fuoco di una umanità alta fuori da sentenziosità e da intellettualismi che pure potevano affacciarsi dato l’argomento. Egli sa dosare immagini e pensiero con accortezza, sa assegnare ad ognuna delle quattro parti il ruolo necessario per farci comprendere il tuffo nella dimensione che fa scoprire le verità inconfutabili dell’essere.
    Accade ciò senza sforzo, con naturalezza, perché il poeta coglie ogni cosa stupito e ammirato di essere il protagonista eccezionale di un incontro eccezionale.

    (dalla Prefazione di Dante Maffia)

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